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Progettare la città del futuro: un'intervista a Carlo Ratti

In questa intervista Carlo Ratti, architetto e insegnante al Massachusetts Institute of Technology (MIT), parla delle forze che stanno plasmando il futuro delle città, dalle nuove tecnologie urbane all'impatto del cambiamento climatico.

4 minuti di lettura

"Senseable" è il termine che meglio riassume la visione ottimista di Ratti sul futuro delle nostre città. È sua opinione che le nuove tecnologie faranno diventare gli spazi urbani più sostenibili dal punto di vista ambientale e più reattivi ai bisogni dei cittadini. La sua attività di architetto ha realizzato innovazioni particolari: tra i suoi progetti, il Digital Water Pavilion di Zaragoza in Spagna, una struttura costituita da pareti d'acqua a controllo digitale, riconfigurabili secondo le esigenze specifiche. Il progetto è stato incluso tra le "Migliori invenzioni dell'anno" 2008 di Time Magazine.

Nell'intervista a 360 gradi con AIQ, Ratti ha raccontato le nuove tecnologie urbane, le teorie urbanistiche, le sfide dei finanziamenti a progetti di sviluppo a lungo termine e l'impatto dei cambiamenti climatici.

Quali ritiene siano i vantaggi economico-sociali della tendenza a costruire città intelligenti? E quali le implicazioni per i governi e decisori politici?

Ritengo che il concetto di città intelligente rifletta gli attuali trend tecnologici: gli spazi che ci circondano si stanno riempiendo di dati digitali. Internet sta diventando Internet delle cose (IoT); un mix di bit e atomi. Questo processo è già iniziato e si palesa ovunque: dall'energia alla gestione dei rifiuti, dalla mobilità alla distribuzione idrica, dall'urbanistica alla partecipazione dei cittadini.

Tuttavia, io preferisco il termine "senseable city", che meglio riassume i vantaggi da un punto di vista sociale dell'introduzione delle tecnologie IoT negli spazi urbani, diversamente dalla tecnologia in sé e per sé. Il termine "senseable" suggerisce sia la sensibilità delle tecnologie digitali, in grado di rilevare e rispondere alle esigenze dei cittadini, sia la sensibilità umana, che mette al centro le persone e i loro desideri.

Un recente rapporto dell'ABI suggeriva che le tecnologie della città intelligente potrebbero determinare una crescita incrementale superiore al 5% e oltre 20 trilioni di USD di vantaggio economico aggiuntivo nei prossimi dieci anni. Sono cifre plausibili?

Non ho letto questo rapporto e non sono un economista. Inoltre, è difficile predire il futuro: pensiamo alla famosa previsione di McKinsey nel 1980, secondo cui il numero di utenti di servizi mobili negli USA sarebbe stato di sole 900.000 persone nell'anno 2000, alla luce della quale AT&T decise allora di non partecipare al mercato della telefonia mobile. La previsione di McKinsey indicava in realtà un valore pari al solo 1% del numero effettivo di utenti di servizi mobili del 2000. Secondo me, se consideriamo la tendenza generale dell'IoT, è come una seconda rivoluzione digitale, 20 anni dopo la prima. L'impatto potrebbe essere enorme.

Lei cita Robert Moses e Jane Jacobs per descrivere la contrapposizione tra progettazione centralizzata e decentralizzazione tecnologica delle città intelligenti. Come si risolve, posto che debba essere risolta?

Non credo che dobbiamo risolvere questa contrapposizione e scegliere un'opzione al posto di un'altra. Tutto sommato, si tratterà sempre di prendere una serie di decisioni e implementarle dal vertice alla base. L'importante è creare con questi sistemi dei canali di partecipazione e dei circuiti di riscontro. La grande novità è che Internet consente 

virtualmente di aumentare la partecipazione. Potremmo affermare che è come se Moses e Jacobs fossero connessi tramite Twitter e potessero prendere decisioni congiunte.

Anche il ruolo degli architetti potrebbe cambiare. Ad esempio, invece della categoria degli "architetti divi" del XX secolo, personaggi autoritari che impongono i propri progetti, dovremmo assumere un ruolo nuovo, che mi piace chiamare dell'"architetto corale". Un termine che si riferisce al concetto di collettività guidata da un direttore d'orchestra, indispensabile per armonizzare le varie voci e, ad esempio, avviare e concludere le prove. 

La sua visione di "senseable city" solleva questioni di privacy di ogni genere. Data la gran quantità di Big Data su cui si basa l'intero sistema, abbiamo urgente bisogno di un "digital deal" dei dati, come auspicano Sandy Pentland e Tim BernersLee? Come potrebbe configurarsi questo tipo di operazione?

Il vero problema non sono le città; è molto più vicino a noi: ce lo abbiamo in tasca! I nostri smartphone sanno tutto di noi e condividono le nostre informazioni con diversi sistemi operativi, applicazioni e operatori di rete. Il punto da affrontare oggi è l'asimmetria delle informazioni, con alcune società e istituzioni pubbliche che sanno molto su di noi, mentre noi sappiamo molto poco su di loro.

Di per sé, i Big Data sostanzialmente consentono una migliore conoscenza dell'ambiente urbano e le loro applicazioni possono essere molteplici. Possono essere utilizzati per dare più potere alle persone, fornendo informazioni e maggiori possibilità di condizionare l'ambiente circostante. Ma anche come strumento di controllo senza precedenti, ad esempio rendendo superpotenti i servizi segreti.

Per evitare questo, dobbiamo individuare delle soluzioni atte a prevenire i rischi del monopolio o dell'uso improprio dei dati. Al MIT siamo da sempre impegnati nelle tematiche etiche e morali correlate ai Big Data. Nel 2013 abbiamo lanciato un'iniziativa chiamata "Engaging Data", che ha coinvolto importanti esponenti governativi, di associazioni per i diritti sulla privacy, accademici e del settore business.

Quali città e quali Paesi sono all'avanguardia nello sviluppo di città intelligenti? Ci sono differenze tra economie avanzate e mercati emergenti in termini del numero di aziende high tech coinvolte?

Stiamo parlando di un fenomeno di portata mondiale, con iterazioni molto diverse. Oggi, ci sono città che partecipano a vari livelli. Ad esempio, Singapore gestisce entusiasmanti progetti pilota correlati alla mobilità del futuro. Copenaghen si occupa di sostenibilità, Boston della partecipazione dei cittadini, e così via.

Molto interessante la sua domanda sulle economie avanzate ed emergenti. Spesso, all'inizio le nuove tecnologie sembrano accentuare le differenze sociali. Invece, la loro successiva diffusione può ridurre il divario e determinarne il superamento. Prendiamo ad esempio i cellulari. Inizialmente erano un privilegio esclusivo delle classi benestanti occidentali. Solo un paio di decenni dopo, sono ormai diffusi in tutto il mondo. I Paesi africani senza infrastrutture di telecomunicazione stanno colmando il gap e sono leader in molte applicazioni, dai servizi di mobile banking all'informazione in tempo reale sul raccolto per gli agricoltori e sui prezzi di mercato per i pescatori, per citarne alcune.

In qualità di architetto per formazione, che importanza ha la collaborazione trasversale tra gli ambiti e le discipline accademici per la creazione di soluzioni funzionali intelligenti?

Alcuni anni fa, la rivista Nature rilevava che la maggior parte degli articoli scientifici erano scritti a più mani, a comprova dell'aumento dei processi collaborativi. Deve avvenire lo stesso per la progettazione. Un concetto utile in questo campo è il "network specificism", che può essere considerato una risposta ai rischi di un mondo della progettazione che si sviluppa in modo uniforme e indifferente al proprio contesto. Il tema veniva trattato nel 2013 in un articolo per Architectural Review che ho scritto insieme ad Antoine Picon, Alex Haw e Matthew Claudel.

Facciamo lo stesso nel nostro laboratorio al MIT, dove ci avvaliamo di persone di tutte le discipline: progettazione e architettura, varie branche di ingegneria e informatica, matematica e fisica, oltre a scienze sociali, indispensabili per comprendere il lato umano delle questioni.

Ci pregiamo anche di declinare in modo più ampio il concetto di diversità, non solo transdisciplinare, ma anche in base a provenienza, percorso educativo, genere e orientamento sessuale. È un approccio che ci abitua a tenere in considerazione la diversità e, di conseguenza, le nuove idee.

La finanza pubblica e privata come può aiutare efficacemente a produrre risultati ottimali per la società?

La "mano invisibile" del mercato, come la definiva Adam Smith, funziona nella maggior parte dei casi. Tuttavia, come sappiamo, non sempre è inclusiva per le minoranze, mentre il benessere e la partecipazione delle minoranze sono fondamentali per le città. Per definizione, queste sono i luoghi di incontro di parti diverse della società. I governi devono fare in modo che incontri e scambi di questo tipo avvengano sistematicamente.

Le joint venture, che rappresentano interessi diversi, possono essere di supporto in questo senso. Ad esempio il PPP oppure, ancora meglio quello che si potrebbe chiamare PPPP (partenariato pubblico-privato-persone).

Si legge spesso di investitori privati che cercano infrastrutture, ma c'è carenza di opportunità. Il fenomeno delle città intelligenti potrebbe offrire una soluzione? 

Non ritengo ci sia carenza di opportunità, anzi. Ad esempio, di recente parlavo con il mio collega e amico Richard Florida, che sta conducendo una ricerca in questo campo. Lui ritiene che l'"urban tech" (gran parte della tecnologia che supporta le città intelligenti, comprese le app di ride-hailing, costruzione intelligente, ecc.) è il settore di investimento maggiore al mondo, anche più delle biotecnologie.

Analogamente, le città intelligenti come si conciliano con la dissonanza tra dover impegnare capitale a lungo termine per la realizzazione delle infrastrutture e la crescente velocità di cambiamento a cui sono esposte? I progetti di infrastrutture implicano importanti anticipi di capitale e spesso un Capex elevato, per poter risultare adeguati. E se il mondo continua a cambiare sempre più rapidamente, diventa difficile capire su quali progetti investire a lungo termine e quali risulteranno fallimentari.

È vero, si tratta di un aspetto fondamentale. L'"hardware" urbano che costruiamo oggi può durare 50, 100 o 200 anni. Ma il "software", il modo in cui lo utilizziamo, può cambiare totalmente nel giro di dieci anni.

Abbiamo bisogno di un'architettura e di una progettazione urbana flessibili e adattabili. 

Sotto questo aspetto, un concetto importante è il "futureproofing". Futureproofing significa essere coscienti del fatto che non possiamo sapere come sarà il futuro e che le città devono essere compatibili con diversi scenari. Ci servono un'architettura e una progettazione urbana flessibili e adattabili, con la capacità di crescere insieme alle tecnologie e alle realtà in divenire, senza diventare obsolete.

Un esempio pratico è un parcheggio flessibile progettato dalla CRA, Carlo Ratti Associati, nell'ambito di un più ampio progetto di un edificio adibito a uffici a Singapore. Oggi, le norme cittadine impongono la presenza di molti parcheggi nelle aree urbane. Tuttavia, gli schemi della mobilità urbana sono in rapida evoluzione e con l'avvento delle autovetture autonome e l'aumento delle piattaforme di car-sharing e bike-sharing, la presenza di veicoli in città può ridursi, rendendo quindi obsoleti i grandi parcheggi che occupano uno spazio urbano prezioso. Il nostro concetto di parcheggio era intrinsecamene adattabile: abbiamo immaginato che molti degli spazi riservati alle auto potessero poi essere utilizzati per altre attività.

Molti dei progetti a cui partecipa prevedono grandi spazi verdi come parte integrante della progettazione dell'edificio. Quanto è importante il verde nello sviluppo urbano e in quale misura ritiene che queste aree verdi siano integrate, oltre che nel design iconico e di alta fascia, anche negli edifici per uffici e alloggi a prezzi accessibili?

La natura è fondamentale per lo sviluppo delle città del XXI secolo. Fin dai tempi dell'antico poeta greco Teocrito, compositore dei romantici idilli bucolici, ci si domanda come costruire città in armonia con l'ambiente circostante. Ma con l'aumento esponenziale del tasso di urbanizzazione mondiale, oggi la necessità di città verdi è ancora più urgente. Fortunatamente, l'innovazione e la tecnologia possono aiutare a ristabilire l'equilibrio perduto.

Al termine del XX secolo, l'urbanizzazione dell'occidente era caratterizzata dall'espansione urbana incontrollata: schemi di sviluppo in netto contrasto con la natura, in cui gli spazi di collegamento non erano formati da aree verdi o parchi, ma da distese di asfalto impermeabile. Mentre i progettisti stanno riconoscendo tutte le lacune di questo tipo di approccio, è necessario ribaltare l'equazione: come far ritornare la natura in città?

Ad esempio, la primavera scorsa abbiamo presentato a Milano il nostro progetto Living Nature: un ambiente di 500 metri quadrati, in grado di far coesistere sotto lo stesso tetto le quattro stagioni. L'obiettivo del progetto era quello di stimolare la discussione sulla progettazione sostenibile e rappresentare modalità sorprendenti per integrare la natura nelle città e nelle case del futuro. Ad esempio, attualmente stiamo progettando uno dei grattacieli più alti di Singapore per CapitaLand, in collaborazione con il Bjarke Ingerls Group (BIG), che prevede la presenza di una foresta tropicale urbana. Anche la nostra proposta di un nuovo campus scientifico dell'Università di Milano pone l'accento sul verde: oltre agli spazi verdi previsti nelle aree esterne e sui tetti, abbiamo progettato una serie di giardini botanici, serre sperimentali e campi sportivi collegati ai corsi d'acqua della zona all'interno di un campus esclusivamente pedonale. 

Più in generale, i progressi delle tecnologie di coltivazione idroponica e aeroponica, e dell'illuminazione a LED, agevolano la coltivazione di piante in spazi ristretti. Se da un lato le città non potranno mai sostituire le zone rurali come fonte principale di alimentazione a livello mondiale, è tuttavia possibile aumentare la quantità di cibo coltivato nelle zone urbane. Questo si applica non solo ai centri residenziali iconici e di fascia alta, ma anche agli edifici per uffici e alloggi a prezzi accessibili.

Più di un secolo fa, il geografo francese Élisée Reclus aveva in modo lungimirante previsto che la gente avrebbe sempre avuto bisogno "sia della possibilità di accedere ai piaceri cittadini... sia di godere della libertà offerta dalla natura". Reclus precorreva i tempi, che allora non erano ancora maturi. Oggi, invece, grazie alle nuove tecnologie e a un approccio audace, il divario urbano-rurale nella progettazione delle città si sta lentamente colmando.

A fronte del riscaldamento globale e con città sempre più calde delle aree circostanti (oltre che più inquinate), quali tecniche e tecnologie costruttive ritiene possano contrastare il fenomeno?

Si possono attuare varie strategie. La prima è quella di rendere le città più efficienti: dato che consumano il 50% delle risorse del pianeta, anche solo dei piccoli miglioramenti possono avere un impatto significativo su scala globale nella riduzione delle emissioni di CO2. La seconda strategia è quella di progettare pensando all'adattabilità, come citavo in precedenza parlando di "futureproofing".  Dobbiamo progettare considerando la realtà dei cambiamenti climatici, integrando adattabilità e reattività agli eventi climatici del futuro. La terza strategia si renderà necessaria se la situazione dovesse sfuggire di mano: sarebbe possibile utilizzare le strategie di geoingegneria per rimettere in sesto il pianeta? 

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