a liberalizzazione politica ed economica è avvenuta di pari passo in tutto il mondo, fin dagli inizi degli anni ottanta. Tuttavia, poiché sempre più paesi si affidano a leader populisti, il mondo potrebbe essere sul punto di disinnamorarsi anche dell'economia del libero mercato?

In un saggio intitolato “The End of History”, pubblicato nel 1989 in concomitanza con la caduta del muro di Berlino, il politologo statunitense Francis Fukuyama osservò come, con l’imminente crollo del comunismo in tutta l’Europa orientale, l’ultima alternativa ideologica al liberalismo, fosse stata eliminata.

Ciò a cui potremmo assistere non è solo la fine della guerra fredda, o il superamento di un periodo particolare della storia del dopoguerra, ma la fine della storia in quanto tale: ovvero la fine dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma ultima di governo umano.

Se immaginiamo la storia come il processo attraverso il quale le istituzioni liberali – governo rappresentativo, liberi mercati e cultura consumistica – diventano universali, potremmo dire che la storia ha raggiunto il suo obiettivo.

Sebbene la tesi di Fukuyama abbia suscitato critiche senza riserve, l’idea che il mondo stesse effettivamente avanzando verso “la fine della storia” non sembrava del tutto fantasiosa. Per la maggior parte dei due decenni successivi, è stato possibile sostenere che le sue opinioni fossero supportate dagli eventi.

Il crollo del comunismo si è rapidamente diffuso oltre i confini dell'Europa orientale, con la Cambogia, l'Etiopia, la Mongolia e il Sud dello Yemen tra i paesi che hanno abbandonato l'ideologia tra il 1989 e il 1991. Quando Fukuyama scrisse il suo articolo, erano 27 i regimi comunisti, mentre nel 1992 il numero era sceso a soli cinque.

Il paradosso della globalizzazione

Il crollo del comunismo e il corrispondente impulso alla governance democratica sono stati ampiamente considerati il logico culmine di un processo iniziato dieci anni prima. Una serie di riforme radicali avviate da Ronald Reagan e Margaret Thatcher si sono dimostrate un catalizzatore per la diffusa adozione del capitalismo di libero mercato. I governi di tutto il mondo hanno privatizzato le istituzioni e i beni di proprietà statale, deregolamentato i mercati sia dei beni che dei servizi, incoraggiato una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e ridotto le tasse. L'aspetto forse più significativo è che la riduzione degli ostacoli al libero scambio di beni, servizi e flussi di capitale è diventata ovunque l'assioma dei paesi.

Illustration of man on top of a pie chart

La Cina fornisce tuttavia un utile punto analitico di confronto. Nel mondo unipolare successivo alla   fine della guerra fredda, i teorici politici supponevano che la liberalizzazione dell’economia cinese avrebbe portato alla democratizzazione del suo sistema politico, tuttavia ciò non è accaduto. Se è vero che, negli anni ‘90, i leader hanno deciso di perseguire una serie di riforme di ampio respiro, tra cui privatizzazioni su larga scala e la riduzione delle barriere e delle normative commerciali, in Xi Jinping, la Cina ha il leader più autocratico dai tempi di Mao Zedong. In presenza di politici populisti che compiono ora grandi passi in Europa, nelle Americhe e oltre, è come se l'Occidente imitasse la Cina: mette in discussione gli stessi ideali democratici liberali che un tempo auspicava venissero adottati da quest’ultima.

Per quanto riguarda il motivo di cióforse è stata la volontà dei politici di sostenere il consenso sui meriti della globalizzazione, con scarsa o nessuna preoccupazione per le conseguenze. Purtroppo, la lenta crescita economica dell’ultimo decennio ha messo in discussione questo fatto richiamando l’attenzione sull’inesorabile aumento delle disuguaglianze che si è verificato in gran parte dell’Occidente negli ultimi 40 anni. Gli elettori vedono sempre più il sistema capitalista manipolato a favore delle élite politiche, delle grandi imprese e dei super ricchi.

Come ha dichiarato ad AIQ Ian Shepherdson, fondatore di Pantheon Macreconomics, una società di consulenza economica per il settore dei servizi finanziari: “La globalizzazione si è dimostrata l’esempio definitivo della legge delle conseguenze involontarie.

Pochi, tra i circoli dei responsabili dell’arena politica, delle economie sviluppate hanno mai immaginato che avrebbe scatenato una reazione senza precedenti contro l’establishment e la validità di base del modello capitalista”.

Il protezionismo è davvero la soluzione?

I benefici della globalizzazione sono stati ripartiti in modo disomogeneo.

Tuttavia, anche se è difficile contestare i benefici della globalizzazione che sono stati distribuiti in modo troppo disomogeneo e il fatto che tale processo abbia creato problemi affrontati dai politici in ritardo, il ricorso al protezionismo come risolutore dei mali per le economie avanzate è tutt’altro che chiaro. 

Tanto per cominciare, il fatto che i vantaggi della globalizzazione siano stati ripartiti in modo disomogeneo non implica che l'aumento del commercio internazionale abbia reso qualsiasi paese complessivamente più povero. Come ha scritto il professore di Harvard ed ex Segretario al Tesoro USA Lawrence Summers nell'aprile 2016: “Nessuno ringrazia il commercio globale per il fatto che la propria busta paga permetta di acquistare il doppio in vestiario, giocattoli e altri beni di quanto permetterebbe diversamente”.2 Di conseguenza, non è intuitivo il motivo per cui un’inversione del processo renderà qualsiasi paese più ricco.

Branko Milanovic, professore di economia al City University of New York Graduate Center, stima che, sebbene in termini relativi i maggiori vantaggi della globalizzazione abbiano beneficiato a favore di una “classe media emergente”, situata prevalentemente in Cina, i maggiori guadagni in termini assoluti si siano convogliati verso l’uno per cento di popolazione più ricca al mondo, metà della quale ha sede negli Stati Uniti.3

Anche se gli stranieri sono spesso considerati un nemico comune in tempi di crisi  economica, ció suggerisce che  non solo sia ironico il fatto che Trump incolpi la  globalizzazione per i problemi economici  del suo paese, ma che le sue politiche potrebbero avere notevoli ripercussioni negative anche sull’economia statunitense.

Se poi dobbiamo credere alle tesi avanzate da alcuni, il protezionismo è una risposta politica inutile.

Il professore dell'Università di Cambridge, Finbarr Livesey, ritiene che le forze di mercato potrebbero essere sul punto di condurre il mondo verso una de-globalizzazione. Nel suo libro del 2018 “From global to local”, egli sostiene che i robot stiano diventando sempre più economici ed efficienti nel sostituire i lavoratori a basso costo e che il settore manifatturiero potrebbe ritornare al punto in cui i prodotti vengano consumati nelle economie avanzate.4 Se Livesey ha ragione, la disuguaglianza in Occidente potrebbe aumentare ulteriormente.

Malgrado il pensiero di Milanovic, secondo altri la globalizzazione è stata solo responsabile di una piccola parte dell’aumento delle disuguaglianze emerse negli ultimi anni. Elhanan Helpman, professore di commercio internazionale alla Harvard University, nel suo libro del 2018 “Globalization and Inequality”, sostiene che: “Le cause principali siano difficili da individuare, anche se gli sviluppi tecnologici che favoriscono i lavoratori altamente qualificati e i cambiamenti nelle politiche aziendali e pubbliche paiano essere i principali sospetti.”5

Le fondamenta etiche del capitalismo sono crollate

I nazionalisti come Trump hanno taciuto ampiamente sulla necessità di cambiare altri aspetti del modello economico capitalista. Tuttavia, un gruppo crescente di commentatori ritiene necessaria una riforma più radicale. Secondo loro, a meno che l'Occidente non affronti con urgenza il suo doppio problema - insufficiente crescita economica e sconcertanti livelli di disuguaglianza- insieme alla minaccia incombente di un cambiamento climatico irreversibile, scaturiranno ulteriori sconvolgimenti politici.

Steven Pearlstein, professore di affari pubblici alla George Mason University, nel suo libro del 2018 “Can American Capitalism Survive?”, osserva che le fondamenta etiche del capitalismo sono state spezzate da un’ideologia radicale del libero mercato, o "neoliberismo".6 “Ci manca un principio chiave della ricchezza delle nazioni di Adam Smith: senza fiducia… il capitalismo democratico non può sopravvivere. Il capitalismo non è morto, ma deve essere salvato da se stesso prima che sia troppo tardi”, ha commentato.

Sebbene la disuguaglianza sia in aumento in Occidente, il problema è particolarmente accentuato negli Stati Uniti. Secondo Shepherdson, i cambiamenti nella politica fiscale hanno giocato un ruolo importante: ad esempio, egli rileva che l’aliquota massima dell’imposta statunitense sul reddito personale è ora pari al 37 per cento, mentre dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1982 non era mai stata inferiore al 69 per cento.

Nel 1965 il rapporto di retribuzione tra amministratore delegato e lavoratore era di 20:1, oggi è di 312:1

Al tempo stesso, mentre le aliquote fiscali sui redditi più alti sono calate, i differenziali retributivi sono aumentati vertiginosamente. Secondo il think tank “Economic Policy Institute”, tra il 1978 e il 2017, i dirigenti delle 350 aziende statunitensi più grandi hanno registrato un aumento salariale di circa il 1000 per cento. La retribuzione media dei lavoratori è cresciuta di appena l’11,2 per cento nello stesso periodo. Mentre nel 1965 il rapporto retributivo tra amministratore delegato e lavoratore era di 20:1 e nel 1989 di 58:1, oggi è di 312:1.7

Figure 1: Change in share of total real income, 1967-2017

Il grafico che precede illustra come, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, la quota della ricchezza nazionale in mano agli americani più ricchi è cresciuta in modo sostanziale, al contrario la porzione  destinata all’80 per cento della popolazione più indigente si è mossa nella direzione opposta. Mentre i redditi al 95° percentile sono aumentati del 94 per cento (1,3 per cento l’anno) se adattati tenendo conto dell’inflazione, quelli al 20° percentile sono aumentati solo del 28 per cento (0,49 per cento l’anno).

Steve Waygood, responsabile degli investimenti di Aviva Investors, sostiene che, sebbene sia necessario un intervento pubblico, gli investitori hanno un ruolo importante da svolgere per affrontare il problema della disuguaglianza.

“Sfortunatamente, sebbene gli investitori stiano iniziando a migliorare nell’ incoraggiare le aziende a garantire che tutti i loro dipendenti percepiscano un salario dignitoso, sono stati molto meno capaci di ridurre gli stipendi eccessivi al vertice, un aspetto che deve essere affrontato con urgenza”, sintetizza.

Secondo alcuni, la disuguaglianza potrebbe accelerare grazie al rapido ritmo di sviluppo delle tecnologie digitali. Nel loro libro del 2014, “The Second Machine Age”, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee del Massachusetts Institute of Technology sottolineavano: “Non c’è mai stato un momento peggiore per essere un lavoratore con competenze solo ‘ordinarie’…, perché computer, robot e altre tecnologie digitali stanno acquisendo queste competenze a un ritmo straordinario”.8

Illustration of people struggling to get a leg up

I lavoratori le cui competenze sono state acquisite dai computer hanno meno da offrire al mercato del lavoro e vedranno una riduzione dei loro salari e delle loro prospettive. I modelli imprenditoriali, le nuove strutture organizzative e le diverse istituzioni sono necessari per garantire che il lavoratore medio non sia tralasciato a causa di macchine all'avanguardia, sostenevano.

L’aumento di disparitá di ricchezza érisultato ancor più estremo Ciò è in parte dovuto al fatto che i prezzi degli attivi sono aumentati molto più rapidamente dei redditi – un fatto particolarmente vero nell’ultimo decennio, grazie all’allentamento senza precedenti della politica monetaria da parte delle banche centrali. Negli Stati Uniti, la quota di reddito nazionale proveniente  dal lavoro è scesa di quasi dieci per anno negli ultimi 50 anni, mentre la quota attribuita agli utili societari è aumentata di un importo simile.9 Dato che i ricchi possiedono una percentuale sproporzionatamente elevata di azioni societarie e altre attività, nel 2017 è stato riportato che l’uno per cento più ricco degli americani deteneva il 40 per cento della ricchezza del paese, una percentuale più elevata del 90 per cento di popolazione con reddito minimo, sommata insieme.10

Aumento della concentrazione del settore

La crescente disuguaglianza tra gli individui si rispecchia negli sviluppi  nella sfera aziendale, con un gruppo selezionato di società che diventa sempre più ricco e potente. Il dominio crescente di alcune aziende è un problema, dato che la concorrenza è la linfa vitale di qualsiasi sistema capitalista ben funzionante. Senza di essa, i consumatori potrebbero trovarsi di fronte a prezzi più elevati e a una minore scelta di prodotti e servizi e i lavoratori avrebbero meno possibilità di lavoro. Inoltre, poiché la mancanza di concorrenza è destinata a determinare una minore crescita della produttività, la crescita economica e i salari saranno entrambi contenuti.

Come ha affermato il professore di economia di Harvard Kenneth Rogoff: “Ci si deve preoccupare del fatto che le cinque grandi aziende tecnologiche siano diventate così dominanti, così redditizie e così ampie da rendere la sfida per le start-up difficile, soffocando così l’innovazione”.11

Ci si deve preoccupare che le cinque grandi aziende tecnologiche siano diventate tanto dominanti

The Economist” ha recentemente riportato come, dal 1997, la concentrazione di mercato delle industrie americane sia aumentata in due terzi. Questo si spiega in parte con l’ingente volume di acquisizioni degli ultimi anni, che in tutto l’Occidente, dal 1998, ammontano a 44 trilioni di dollari.12

Di conseguenza, il flusso di cassa libero delle società è superiore all 76 per cento alla sua media cinquantennale, rispetto al PIL. In Europa si può osservare una tendenza simile, anche se meno estrema. In entrambi i continenti, le imprese dominanti stanno diventando sempre più difficili da smantellare.

L’ “Economist” ha stimato che la riserva globale di profitti anomali è stata di 660 miliardi di dollari, più di due terzi dei quali sono stati realizzati in America, mentre un terzo da società tecnologiche.

Secondo Jonathan Haskel e Stian Westlake, é presente un’ulteriore spiegazione riguardo all’aumento dei livelli di disuguaglianza all’interno delle imprese, ovvero l’importanza in rapida crescita degli investimenti in beni immateriali - come design, branding e software - in parte dovuto al fatto che, diversamente da un bene materiale come uno stabilimento, gli investimenti immateriali sono radicalmente scalabili.

Nel loro libro “Capitalism Without Capital”, sostengono che questo non solo abbia permesso a colossi come Google, Microsoft e Facebook di crescere rapidamente, ma abbia anche incrementato il divario di redditività tra vincitori e vinti e, di fronte a un mondo che si divide in aziende a basso e ad alto reddito, si traduce, di conseguenza, in una disparità dello stesso .13

Il problema di un solo pianeta

Waygood osserva come il capitalismo abbia creato e ora stia lottando per trovare una soluzione a quella che è probabilmente la questione più urgente di tutte, il cambiamento climatico causato dall'uomo, e afferma che il settore della gestione patrimoniale e i suoi clienti sono esposti a potenziali perdite significative a causa del cambiamento climatico.

“La nostra ricerca condotta con l’Economist Intelligence Unit stima che il valore attuale degli attivi a rischio, da qui al 2100, potrebbe arrivare a 43 trilioni di dollari USA – pari al 30 per cento dell’intero stock di attivi gestibili – se le temperature globali salgono di 6°C. Queste perdite saranno amplificate solo se il livello di riscaldamento del mondo rimarrà incontrollato ”.

“In breve, il cambiamento climatico è il rischio collettivo più grande che dobbiamo affrontare. Se non si intraprende un'azione urgente per limitare gli aumenti delle temperature globali in modo rapido e sostanziale, il disastro ambientale a lungo termine avrà gravi conseguenze economiche per le imprese e la società”, afferma Waygood.

Per quanto riguarda le soluzioni, egli sostiene che, dal momento che i mercati non valutano le cosiddette esternalità, come le emissioni di carbonio e l'inquinamento, i paesi alla fine devono lavorare insieme per affrontarlo, trasferendo questi costi esterni nelle dichiarazioni dei flussi di cassa aziendali. È possibile raggiungere questo obiettivo stabilendo un prezzo del carbonio attraverso un sistema di scambio delle emissioni, fissandone una tassa su di esso o regolando certe pratiche inesistenti.

Se da un lato sta incoraggiando le istituzioni sovranazionali, e la maggior parte dei singoli governi ha iniziato a valutare la questione molto più seriamente, dall'altro, il fatto che Trump stia escludendo gli Stati Uniti dall'accordo sul clima di Parigi è preoccupante, in particolare perché il Brasile, con il nuovo presidente Jair Bolsonaro, sta minacciando di agire nella stessa maniera.

Nonostante le sue preoccupazioni riguardo le azioni di Trump, Waygood afferma che vi sono motivi per essere ottimisti. “Negli Stati Uniti, ad esempio, singoli stati come la California hanno contribuito al rapido cambiamento delle nuove tecnologie come i veicoli elettrici e l’energia rinnovabile fornendo al settore privato la giusta combinazione di incentivi e sanzioni. Sebbene il capitalismo abbia creato alcuni di questi problemi, ha anche un ruolo cruciale da ricoprire nel fornire soluzioni”, afferma.

Per quanto Waygood creda nelle soluzioni basate sul mercato, e pur riconoscendo che paesi diversi possono muoversi in direzioni diverse e a velocità diverse, egli sospetta che, nel complesso, l’ago della bilancia si stia allontanando dall'economia di libero mercato e dalla de-regolazione verso l’intervento pubblico.

“L’aumento della disuguaglianza e il cambiamento climatico provocato dall’uomo rappresentano due enormi fallimenti del mercato. Se è vero che i mercati possano fornire alcune risposte, è chiaro che i governi debbano agire con urgenza. Lungi dal minare il sistema capitalista, essi rafforzerebbero il suo potenziale produttivo a lungo termine”, afferma.

L’aumento della disuguaglianza e il cambiamento climatico provocato dall’uomo rappresentano due enormi fallimenti del mercato.

Insistere su un punto

Con la politica occidentale in un tale stato di cambiamento, prevedere la direzione in cui il capitalismo si sta dirigendo non è semplice. Anche se, in un mondo ideale, i paesi accettassero di procedere in una direzione simile l’uno all’altro, vi sono scarse indicazioni che ciò sia probabile.

Si consideri la questione della riforma fiscale. E’ uno degli strumenti più ovvi di cui i governi dispongono per affrontare le disuguaglianze. Uno storico olandese è di recente diventato improvvisamente una celebrità sui social media dopo aver spiegato davanti al pubblico del Forum Economico Mondiale di Davos che era una perdita di tempo cercare di affrontare le disuguaglianze e i disordini sociali senza prima riformare la tassazione.

“Sento gente parlare di partecipazione, giustizia, uguaglianza e trasparenza, ma poi quasi nessuno solleva la vera questione dell’elusione fiscale e i ricchi semplicemente non pagano quanto dovrebbero. È come partecipare a una conferenza dei pompieri senza poter parlare di acqua", ha detto Rutger Bregman.14

Come spiega un rapporto OCSE del 2012, non solo la politica fiscale può svolgere un ruolo importante nel rendere meno iniqua la distribuzione del reddito, ma è “fondamentale al fine di  aumentare le entrate per finanziare la spesa pubblica, per i mezzi di trasporto , la sanità e l’istruzione che tendono a favorire le famiglie a basso reddito, nonché per le infrastrutture che consentono la crescita (economica) e che possono anche aumentare l’equità sociale”.15 L'anno precedente, Angel Gurría, segretario generale dell'organizzazione, aveva chiesto ai paesi di rendere i loro regimi fiscali più progressivi, di colmare le lacune  ed eliminare i paradisi fiscali.16

Tuttavia, sebbene alcune nazioni possano scegliere di aumentare le tasse, invertendo la tendenza degli ultimi 40 anni, è improbabile che tutte lo facciano: la tentazione per altre sarà quella di cercare di attrarre imprese e lavoratori altamente qualificati diminuendo le imposte. Dopo tutto, la fiducia nella cosiddetta economia “dall’alto” – l’idea che tassare le imprese e i ricchi dovrebbe essere ridotta per stimolare gli investimenti delle imprese nel breve termine, a vantaggio di tutta la società nel lungo termine – è profondamente radicata in Occidente, soprattutto negli Stati Uniti.17

I recenti cambiamenti nella politica fiscale statunitense ne sono un esempio lampante. Trump sembra riconosca la disuguaglianza come un problema e il fatto che le imposte abbiano un ruolo da svolgere: per esempio, quando ha firmato la Legge sui tagli fiscali e sull’occupazione, nel dicembre 2017, ha affermato che i lavoratori della classe media avrebbero sperimentato un aumento retributivo da 4.000 a 9.000 dollari e che gli americani più ricchi non ne avrebbero invece guadagnato “nulla”.

La realtà è stata un po' diversa. Secondo William G. Gale, co-direttore dell'Urban-Brookings Tax Policy Center, che mira a fornire un'analisi indipendente delle questioni fiscali, la maggior parte dei contribuenti della classe media ha constatato solo un modesto aumento delle aliquote fiscali più basse. I ricchi ne hanno tratto i maggiori vantaggi con conseguente “aumento della disuguaglianza di reddito”.18

Ultimamente sono state proposte soluzioni radicali, ma forse non realistiche. Nel suo best-seller del 2013, “Capital in the Twenty-First Century”, l’economista francese Thomas Piketty ha sostenuto che il principale fattore di disuguaglianza – la tendenza dei rendimenti del capitale a superare il tasso di crescita economica – minacciava di generare disparità estreme. Egli ha anche affermato che un possibile rimedio sarebbe l’introduzione di una tassa patrimoniale globale;19 tuttavia mentre l’idea puó sembrare buona sulla carta, per essere efficace sarebbe necessaria una cooperazioneE' probabile che, se un paese dovesse introdurre tale tassa in modo isolato, i suoi cittadini più ricchi cercherebbero di trasferire i propri beni all'estero.

Lo stesso vale per gli sforzi volti a colmare le lacune dell'imposta sulle società. I commercialisti sono diventati esperti nel trovare discrepanze tra le norme fiscali in diversi paesi, aiutando le multinazionali a trasferire beni di valore su scala internazionale, per ridurre al minimo le loro tasse. Anche l’economia digitale, in cui le aziende possono operare in paesi con scarsa o nessuna presenza fisica, ha incoraggiato tale comportamento.

Nel 2013, l’OCSE – un gruppo di paesi prevalentemente ricchi – ha avviato un progetto per combattere l’elusione fiscale da parte delle multinazionali. Benché sostenga di compiere progressi nel suo tentativo di indurre i paesi a collaborare, ancora una volta gli stessi sono fortemente indotti ad indebolirsi a vicenda. Per esempio, Paul Ryan, all’epoca presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, ha dichiarato, nel 2015, che le proposte dell’OCSE costituivano un “tentativo di appropriarsi sostanzialmente di una base fiscale delle nostre società nazionali”.20 Basti pensare alle difficoltà che l'UE sta incontrando per convincere gli stati membri a concordare un piano per tassare i giganti tecnologici statunitensi come Google (Alphabet), Amazon e Facebook sulle loro entrate invece che sui loro profitti.

Shepherdson ritiene che, sebbene possa avere senso per i governi tassare maggiormente le società per ridurre le disuguaglianze, dall’altro latoè probabile che le aliquote d’imposta sulle società continueranno a diminuire, senza la cooperazione internazionale. Secondo The Tax Foundation, un think tank statunitense, nel 2017, l'aliquota media dell'imposta societaria in 202 giurisdizioni era del 23 per cento, in ribasso del 39 per cento dal 1980. Sembra che gran parte di questo calo sia dovuto alla globalizzazione, con i paesi che gareggiano h l'uno con l'altro per attrarre le multinazionali ognuno dalla propria parte.21

Labouring the point

Alla luce di questi problemi, i politici sembrano ora concentrarsi sui mercati del lavoro. In Australia, ad esempio, nel 2011 il governo ha introdotto la “regola dei due colpi”, in base alla quale l’intero consiglio di una società viene rimosso se il 25 per cento degli azionisti respinge la sua relazione sulle remunerazioni per due anni consecutivi. Nel 2018, il Primo Ministro britannico Theresa May ha annunciato che avrebbe migliorato i diritti di milioni di lavoratori, compresi quelli della cosiddetta “gig economy”, promettendo loro migliori ferie, indennità di malattia e contratti piú remunerativi. Ha inoltre promesso un giro di vite sulle aziende che si avvalgono di stagisti non retribuiti, nonché di aumentare le sanzioni per quelle che non trattano appropriatamente il personale.

Il leader del partito laburista Jeremy Corbyn ha proposto che gli appalti pubblici vengano assegnati solo alle imprese con un rapporto salariale accettabile.

I politici di sinistra intendono aumentare la forza lavoro anche con altri mezzi. In Occidente sono state avanzate richieste per arrestare il declino del potere dei sindacati.  Negli Stati Uniti, l’Accountable Capitalism Act proposto dalla senatrice Elizabeth Warren, un potenziale candidato alle elezioni presidenziali del 2020, prevede che i dipendenti eleggano il 40 per cento del consiglio di amministrazione di qualsiasi società con oltre 1 miliardo di dollari USA di ricavi.22

Per quanto riguarda la concentrazione del settore, Waygood afferma che gli organi regolatori, soprattutto negli Stati Uniti, debbano avere più poteri per studiare i mercati che stanno diventando disfunzionali. Waygood ritiene che le grandi società tecnologiche statunitensi debbano far fronte a controlli sempre più approfonditi in tutto il mondo. Questo vale in particolar modo per Google, Twitter e Facebook, dato che sono accusati di abusare dei dati privati, di permettere a account falsi di diffondere prodotti fraudolenti e informazioni errate e di non porre fine alle interferenze nella politica occidentale.

Secondo Rogoff, forse l'intervento più urgente è quello di indebolire l’accesso ai dati personali da parte dei suddetti colossi tecnologici. Egli afferma, che l'Unione europea ha indicato una possibile via da seguire con il nuovo Regolamento Generale sulla protezione dei dati, garantendo ai consumatori – anche se solo a quelli dell’Unione europea – un controllo molto maggiore sui loro dati personali detenuti dalle imprese. Eric Posner e Glen Weyl si spingono oltre: nel loro libro “Radical Markets”, gli accademici statunitensi propongono di obbligare i monopoli digitali a risarcire le persone per i loro dati elettronici.23

Virata verso sinistra?

Sebbene i politici nazionalisti abbiano tratto i maggiori benefici elettorali convogliando la rabbia degli elettori verso l'immigrazione e il commercio estero, vi sono segnali che indicano come un numero crescente di persone in Occidente desideri meno economia di libero mercato anziché aumentarla.

In presenza di elettorati sempre più polarizzati, i politici di sinistra stanno guadagnando piú voti.

I nazionalisti hanno abrogato i premi elettorali convogliando la rabbia degli elettori verso il problema immigrazione.

Bernie Sanders, Jeremy Corbyn e Jean-Luc Mélenchon sono candidati che si presentavano con programmi considerati un tempo di estrema sinistra, a cui gli elettori di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia si sono peró rivolti in maniera sorprendentemente numerosa.

Il sostegno per questi politici si è dimostrato particolarmente forte tra gli elettori più giovani. Nel caso di Sanders non è così sorprendente, se si considera che un sondaggio Gallup del 2018 aveva riscontrato che un numero maggiore di americani di età compresa tra i 18 e i 29 anni aveva una visione positiva del socialismo rispetto al capitalismo e che il sostegno verso quest’ultima ideologia era crollato di un terzo dal 2010.24

Premesso tutto ció, non è sempre ovvio che gli intervistati abbiano una visione chiara e coerente del “socialismo”. Lo stesso Sanders sembra aver cambiato opinione nel corso degli anni. Il giovane Sanders elogiava un tempo i governi socialisti di Cuba e Nicaragua, ma durante la campagna presidenziale del 2016 dichiaró: “Quando parlo di socialismo democratico, non mi riferisco al Venezuela, né a Cuba, bensì a paesi come la Danimarca e la Svezia”.25

Parte del motivo della confusione è che nessun paese al mondo pratica l'economia del libero mercato nella sua forma più pura. L'intervento pubblico si riscontra a vari livelli in tutti i paesi in cui il capitalismo privato è il motore primario della produzione.

Il Primo Ministro danese Lars Løkke Rasmussen ha risposto così alle osservazioni di Sanders: “So che alcuni negli Stati Uniti associano il modello nordico a una sorta di socialismo. Vorrei pertanto chiarire un punto: la Danimarca è lungi dall'essere un'economia pianificata socialista. É un’economia di mercato”.26 Dal 1980 la Danimarca ha, infatti, preso le distanze dalle misure di intervento di stampo socialista, privatizzando diversi settori e deregolamentandone molti altri.

La storia è viva e vegeta

In un’intervista rilasciata subito dopo l’insediamento di Trump, Fukuyama ha ammesso di essersi sbagliato. Lungi dal concludersi con la caduta della cortina di ferro nell'Europa orientale, la storia era viva e vegeta.27

“Venticinque anni fa, non avevo alcun senso o teoria su come le democrazie potessero regredire e penso che possano farlo”, ha scritto l'uomo che ha contribuito in modo determinante alla formulazione della cosiddetta Dottrina Reagan e una figura importante nel movimento neoconservatore USA.

Nel 2018 prosegue: “Questo lungo periodo, iniziato con Reagan e Thatcher, in cui hanno  preso piede una serie di idee sui vantaggi dei mercati non regolamentati, ha avuto per molti versi un effetto disastroso”.28

Tuttavia, come abbiamo visto, non si tratta di una discussione sugli estremi: i limiti di entrambe le estremità dello spettro sono stati chiaramente esposti. In quest'epoca di Big Data, la complessità associata a milioni di famiglie che compiono miliardi di scelte alle quali i governi e le imprese non potrebbero mai rispondere perfettamente rappresenta una prova sufficiente contro il concetto di pianificazione centrale nella sua interezza. Allo stesso modo, però, il ruolo del settore pubblico, non solo nella produzione di beni sociali come l'istruzione, la sanità e le infrastrutture, ma anche nel finanziamento di innovazioni come Internet e la tecnologia di base a supporto dello smartphone, compromette la causa a favore di mercati liberi e senza restrizioni.

Sembra quindi improbabile che un paese abbandoni presto il capitalismo, soprattutto perché la sfiducia nei confronti dei governi centrali rimane radicata in gran parte dell'Occidente. Anche se alcuni si sono chiesti se il successo economico della Cina – non da ultimo il fatto che è emersa dalla crisi finanziaria relativamente indenne – fará discutere riguardo al fatto che il paese abbia creato un nuovo modello di sviluppo economico, sembra improbabile.29 Dopo tutto, un sondaggio condotto presso il Pew Research Center nel 2014 ha riscontrato che il 70% degli americani riteneva ancora che le persone stessero meglio in un'economia di libero mercato. La percentuale in Germania era addirittura superiore, al 73 per cento, e nel Regno Unito si attestava al 65 per cento.30

La nostra tentazione a focalizzarci sui cambiamenti che fanno notizia è risaputa ed è quello su cui fanno leva i populisti. La realtà odierna, tuttavia, non sembra rappresentare un attacco fondamentale al capitalismo in sé, quanto piuttosto una sfida ai suoi fondamenti filosofici ed etici. Il capitalismo come sistema organizzatore della società ha dimostrato la sua resilienza negli ultimi 100 anni e, per garantire che lo faccia per i prossimi 100 e oltre, dovrà ricollegarsi al suo scopo principale: le persone a cui si rivolge. Questo richiederà un approccio migliore per distribuire la ricchezza, affrontare gli istinti regionali e nazionalisti e, aspetto forse più importante di tutti, affrontare il cambiamento climatico con decisione.

Il capitalismo dovrà ricollegarsi al suo scopo principale: le persone a cui si rivolge.

Riferimenti

  1. Francis Fukuyama, ‘The End of History?’, The National Interest, Summer 1989.
  2. Lawrence Summers, ‘Global trade should be remade from the bottom up’, The Financial Times, 10 April 2016.
  3. Branko Milanovic, Global inequality: A new approach for the age of globalization (Harvard University Press, 2016).
  4. Finbarr Livesey, From Global to local: The making of things and the end of globalization (Profile Books, 2017).
  5. Elhanan Helpman, Globalization and inequality (Harvard University Press, 2018).
  6. Steven Pearlstein, Can American capitalism survive? (St. Martin’s, 2018).
  7. Source: Economic Policy Institute.
  8. Erik Brynjolfsson and Andrew McAfee, The Second Machine Age (WW Norton, 2014).
  9. Source: Macrobond.
  10. ‘Nation’s top 1 per cent now have greater wealth than the bottom 90 per cent’, Washington Post, 8 December 2017.
  11. Kenneth Rogoff, ‘Big Tech is a big problem’, Project Syndicate, 2 July 2018.
  12. 'The next capitalist revolution,’ The Economist, 15 Nov 2018.
  13. Jonathan Haskel & Stian Westlake, Capitalism without capital (Princeton University Press, 2017)
  14. Source: Twitter
  15. Alan Carter and Stephen Matthews, ‘How tax can reduce inequality,’ OECD Observer No 290-291, Q1-Q2 2012
  16. Angel Gurría, ‘Tackling inequality’, OECD Observer No 287 Q4 2011.
  17. Joseph Stiglitz, ‘Why tax cuts for the rich solve nothing’, Project Syndicate, 27 July 2017.
  18. William Gale et al., ‘Effects of the Tax Cuts and Jobs Act: A preliminary analysis’, The Brookings Institution, 14 June 2018.
  19. Thomas Piketty, Capital in the twenty-first century (Éditions du Seuil, 2013).
  20. ‘Paul Ryan on the prospects for a tax overhaul’, The Wall Street Journal, 21 June 2015.
  21. Kari Jahnsen & Kyle Pomerleau, ‘Corporate income tax rates around the world’, The Tax Foundation report, September 2017.
  22. ‘Warren introduces Accountable Capitalism Act’, Elizabeth Warren Press Release, 15 August 2018.
  23. Eric A. Posner & E. Glen Weyl, Radical markets: uprooting capitalism and democracy for a just society (Princeton University Press, 2018).
  24. ‘Democrats more positive about socialism than capitalism’, Gallup, 13 August 2018.
  25. ‘Bernie Sanders: Democratic socialism isn’t Cuba and Venezuela…,’ Real Clear Politics, 19 February 2016.
  26. ‘Denmark’s prime minister says Bernie Sanders is wrong to call his country socialist’, Vox, 31 Oct 2015.
  27. ‘The man who declared the ‘end of history’ fears for democracy’s future’, Washington Post, 9 February 2017
  28.  ‘Francis Fukuyama interview: “Socialism ought to come back”’, New Statesman, 17 October 2018.
  29. ‘Is China’s growth model a threat to free-market economics?’, The Economist, 13 June 2018.
  30. Source: Pew Research Centre.

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